XVI. Letteratura


Innanzi tutto desidero chiarire che non è mia intenzione discutere in questo capitolo il complesso tema dell'influenza esercitata da Freud sulla letteratura in genere, compito assai superiore alle mie forze. In proposito posso rinviare il lettore ad alcuni dei molti saggi e libri dedicati a questo argomento, sebbene manchi ancora uno Studio veramente esauriente. È chiaro che l'opera di Freud ha fornito un potente stimolo alla comprensione della motivazione psicologica, ma il compito dello scrittore non è quello di esporre i processi inconsci, quanto quello di descrivere le complesse ramificazioni di questi motivi.

In questa sede mi limiterò a tre argomenti: il contributo di Freud alla comprensione dell'attività creativa e lo studio di certe opere di letteratura; qualche parola sui suoi interessi letterari, e finalmente qualche notizia sui suoi contatti con le personalità del mondo letterario.

E più giusto prestargli ascolto quando scrive di letteratura che di altri campi dell'arte, poiché fu egli stesso un vero maestro di stile prosastico: l'assegnazione del premio Goethe fu un riconoscimento di questo aspetto del suo lavoro. In molti dei brani in cui discute la natura del talento artistico, Freud si riferisce più al poeta (Dichter) che non al pittore. Quando Havelock Ellis e altri critici asseriscono che Freud era più artista che scienziato, l'affermazione non va intesa tanto come una lode al suo talento artistico, quanto un mezzo per svilire la sua produzione scientifica; analoghe critiche toccarono all'opera scientifica di Goethe. Possiamo comunque esser certi che se il destino non lo avesse portato sulla via in seguito percorsa, le sue facoltà creative avrebbero trovato espressione nella letteratura. Si dice che una volta raccontasse che da giovane avesse pensato di diventare un  romanziere.   L'unica allusione  giovanile  a  una  simile  idea ricorre in una lettera a Martha Bernays (1 aprile 1884): «Eccoti una sorpresa. Ripetutamente - non so come !! - mi son venuti in mente molti racconti, e uno di essi, ambientato in Oriente, ha preso recentemente una forma abbastanza definita. Ti meraviglierai nell'apprendere che comincio a prestare orecchio alle tentazioni letterarie, mentre prima non avrei potuto immaginare nulla di più estraneo alla mia mente. Devo metterlo per iscritto, o il leggerlo ti metterebbe a disagio? Se lo faccio è solo per te, ma non sarà molto bello. Anch'io ho pochissimo tempo, ora. Però credo che se questi pensieri mi torneranno, la cosa maturerà da sé. In tal caso scriverò, e tu riderai sotto sotto per conto tuo, senza parlarne con nessuno.»

Il suo interesse per l'espressione e lo stile nacque certo molto presto. Già a scuola i suoi insegnanti commentavano il suo particolare modo di scrivere idiomatico. Egli si interessava specialmente del linguaggio in sé, e fece delle scoperte inattese sul suo significato, che ritroviamo nel suo primo libro, Sull'afasia nella discussione sul linguaggio nello Schema di una psicologìa scientifica e soprattutto nell'importanza attribuita all'uso delle parole come criterio per separare la psiche preconscia da quella inconscia. Sulla struttura delle parole Freud scrisse diversi lavori.

Freud ebbe spesso presente l'analogia tra le proprie ricerche psicologiche e le intuizioni degli scrittori. Negli Studi sull'isterismo (1895) scrive in tono vagamente apologetico: «Mi hanno insegnato a servirmi della diagnosi localizzata e dell'elettro-prognosi, eppure mi sembra ancora strano che i casi clinici che scrivo debbano venir letti come novelle e non abbiano, per così dire, il marchio della serietà scientifica... Il fatto è che nello studio dell'isterismo la diagnosi locale e le reazioni elettriche non portano a nulla, mentre una descrizione dettagliata dei processi mentali, tale quale siamo abituati a trovarla nelle composizioni degli scrittori, mi mette in grado, con l'uso di poche formule psicologiche, di ottenere per lo meno una certa visione del decorso di quella malattia.»

Freud sentiva evidentemente un'affinità tra sé e gli scrittori, pur ammirando, e forse vagamente invidiando, la facilità con cui questi raggiungono quelle percezioni che a lui personalmente erano costate tanto. Gli sembravano persone meravigliose: «Vien fatto di sospirare pensando che solo a pochi è consentito di sottrarre quasi senza sforzo al vortice delle loro emozioni le verità più profonde, alle quali noialtri giungiamo solo attraverso un cammino faticoso, avanzando senza posa a tentoni in mezzo a torturanti incertezze.»

Vent'anni prima di questo passaggio, Freud scriveva parole simili nel libro Gradiva: «I romanzieri sono per noi colleghi preziosi e bisogna tenere in altissimo conto le loro affermazioni, poiché essi possiedono un loro modo di venire a conoscere molte delle cose che stanno tra cielo everrà, e che la nostra filosofia non immagina neppure. Nella conoscenza del cuore umano, essi sono in testa a noi tutti, gente comune, poiché attingono a fonti tuttora inaccessibili alla scienza.» Sempre in questo contesto Freud spezza una lancia in favore della psicologia medica come introduzione alla comprensione della psiche normale e dei disturbi psichici più gravi, affermando che in questo essa batte un terreno comune con la migliore produzione letteraria: «Wilhelm Jensen ci ha dato uno studio psichiatrico assolutamente esatto... I più giudicheranno forse che gli rendiamo un servizio negativo affermando che la sua opera rappresenta uno studio psichiatrico: dicono che lo scrittore deve evitare ogni contatto con la psichiatria e lasciare ai medici la descrizione degli stati psichici morbosi. In realtà nessun vero scrittore ha mai tenuto conto di questo precetto. Il ritrarre la vita psichica degli uomini è cosa di suo specialissimo dominio; lo scrittore ha sempre precorso la scienza e con questo anche la psicologia scientifica, poiché il limite tra lo stato psichico normale e quello definito morboso è in un certo senso puramente convenzionale; inoltre è così fluido che probabilmente ciascuno di noi lo oltrepassa varie volte nel corso della giornata. D'altra parte la psichiatria commetterebbe un errore se cercasse di limitarsi costantemente allo studio di quelle affezioni gravi e deprimenti che derivano da alterazioni grossolane del delicatissimo apparato psichico: non minore deve essere il suo interesse per quelle deviazioni dalla norma, secondarie e riparabili, che attualmente non possiamo attribuire che a delle alterazioni nel gioco delle forze psichiche, è solo attraverso queste che la psichiatria riuscirà a capire sia il concetto di salute mentale che le manifestazioni morbose più gravi. Perciò lo scrittore non può fare a meno dello psichiatra, così come lo psichiatra non può fare a meno dello scrittore, e il trattare poeticamente un argomento psichiatrico può risultare perfettamente rispondente, senza che questo vada a detrimento della sua bellezza.»

Va ricordato a questo proposito che la prima e forse unica persona ad apprezzare il significato del più antico contributo di Freud alla psicopatologia, cioè gli Studi sull'isterismo, fu uno scrittore, e precisamente Alfred von Berger.

Nei suoi scritti Freud esprime ripetutamente la sua enorme ammirazione per le realizzazioni dei romanzieri. Come tutti gli artisti, essi posseggono un dono misterioso, che Freud ammira di lontano senza riuscire a svelarne il segreto. Valga per tutte questa osservazione, del resto già citata: «Disgraziatamente la psicoanalisi deve deporre le armi davanti al problema dello scrittore creativo.»

Ciononostante Freud ha qualcosa da dire sulla natura della produzione artistica ed in particolare letteraria, e stabilisce in proposito due punti fondamentali. Nell'unico lavoro da lui scritto sull'argomento (nel 1908), Gli scrittori creativi e i sogni ad occhi aperti, Freud scopre un legame tra lo scrittore e la persona comune nel rapporto tra il gioco infantile e le fantasie dell'età adulta: queste ultime sono assai più involute del primo. Freud stabilisce questa formula: un comune stimolo risveglia un desiderio insoddisfatto, da lungo tempo dimenticato, della prima infanzia, creando così il nuovo desiderio di ottenere ancora una soddisfazione in futuro. Il modo in cui il poeta o lo scrittore trasforma l'inconscio desiderio infantile in un'opera d'arte è «suo personalissimo segreto», e costituisce la vera ars poetica. I sistemi di cui si serve permettono al lettore di rispondere alla gratificazione di questi desideri inconsci in un modo che sarebbe altrimenti impossibile.

Il secondo punto.è la distinzione tra piacere preliminare e piacere finale, esposta tre anni dopo nel suo lavoro Formulazione dei due princìpi di funzionamento mentale. È nel primo dei due che Freud individua la misteriosa tecnica artistica.

Sulla natura dell'artista non può dire altro se non che questi deve possedere un insolito potere di sublimazione e una certa mancanza di rigore nelle repressioni inerenti ai conflitti inconsci. Osserva anche che «è difficile che un artista sia (sessualmente) astinente, mentre invece non è raro che lo sia un giovane dedito allo studio».

Freud vede la funzione sociale dell'arte nell'effetto compensatorio che essa esercita nei confronti delle varie e inevitabili insoddisfazioni cui si va incontro nella vita. L'artista trova una via indiretta per passare dalla fantasia alla realtà, «ma questo avviene solo perché altri uomini provano la sua stessa insoddisfazione per le rinunce imposte dalla realtà, e perché questa insoddisfazione, risultante dalla sostituzione del principio del piacere con il principio della realtà, fa parte essa stessa della realtà». Troviamo un passo simile sedici anni dopo:  «L'arte, com'è riconosciuto da tempo, offre delle gratificazioni sostitutive alle più antiche (e perciò più profondamente sentite) rinunce imposte dalla civiltà, e rappresenta perciò per le vittime di queste il più efficace calmante.»

L'esposizione più sentita delle sue vedute sulle creazioni della fantasia, si trova forse in un passo dell' Autobiografia, in cui Freud descrive lo sviluppo passato delle proprie idee: «Il regno dell'immaginazione rappresenta evidentemente un santuario creato durante la dolorosa transizione dal principio del piacere a quello della realtà, al fine di fornire un sostituto alla soddisfazione degli istinti, alla quale nella vita reale bisogna rinunciare. L'artista, come il nevrotico, si è ritirato da una realtà insoddisfacente nel mondo dell'immaginazione, ma a differenza del nevrotico egli sa come ritrovare il cammino per rimettere piede sul solido terreno della realtà. Le sue creazioni, o opere d'arte, sono le gratificazioni immaginarie di desideri inconsci, come i sogni; e come questi hanno la natura del compromesso, poiché anch'esse son costrette ad eludere ogni conflitto aperto con le forze repressive. Esse però differiscono dai prodotti asociali e narcisistici del sogno in quanto sono calcolate allo scopo di suscitare l'interesse di altre persone, e risvegliare e soddisfare anche in queste gli stessi desideri inconsci. Ino1 tre, esse si servono del piacere percettivo della bellezza formale, come quello che ho chiamato un "premio di incitamento". La psicoanalisi è riuscita a cogliere le interrelazioni tra le impressioni della vita dell'artista, le sue esperienze occasionali e la sua opera, e a costruire da questi elementi la sua personalità e gli impulsi in essa operanti, cioè quella parte di sé che l'artista ha in comune con tutti gli altri uomini.»

Non è facile affermare qualcosa di definitivo sulle attitudini di Freud alla critica letteraria. Le sue frequenti osservazioni sulle opere letterarie indicano in lui un critico di prim'ordine, anche se non potè coltivare in particolar modo gli aspetti più tecnici della critica. In tutti i suoi scritti, nella corrispondenza e nei Resoconti della Società di Vienna sono disseminati numerosi commenti su argomenti e opere letterarie, degni di esser raccolti in uno studio a parte: ne abbiamo già citato altrove un esempio tipico, nel quale Freud discute la posizione della verità storica nel romanzo storico, giungendo a una conclusione definitiva ma tutt'altro che dogmatica. A questo proposito riporterò un'interessante lettera che dobbiamo alle ricerche del dr. Kurt Eissler. Nel 1907 un editore di Vienna', Hugo Heller, invitò un certo numero di persone in vista a fare una scelta di dieci «buoni libri», e pubblicò in forma di opuscolo le 32 risposte tra le quali c'erano quelle di Peter Altenberg, Hermann Bahr, August Forel, Ernst Mach, Thomas Masaryk, Arthur Schnitzler e Jakob Wassermann. Ecco la risposta di Freud; il quesito l'aveva evidentemente solleticato.

Lei mi chiede di nominare «dieci buoni libri» senza concedermi nessuna spiegazione, lasciandomi quindi non solo la scelta dei libri, ma l'interpretazione della richiesta. Abituato come sono a tener conto dei benché minimi segni, devo attenermi alle espressioni di cui Lei si serve nel Suo enigmatico quesito. Lei non ha detto «le dieci opere più belle della letteratura mondiale» nel qual caso avrei dovuto rispondere, come molti altri: Omero, le tragedie di Sofocle, Faust di Goethe, Amleto, Macbeth di Shakespeare, ecc.

Non ha detto neppure i dieci libri «più importanti», formula che avrebbe richiesto l'inclusione di opere scientifiche quali quelle di Copernico, il libro sulle streghe del vecchio medico Johann Weier, l'Origine dell'uomo di Darwin e altre ancora. Né mi ha chiesto i miei «libri preferiti», tra i quali non avrei dimenticato // paradiso perduto di Milton e Lazarus di Heine. Penso dunque che il Suo termine «buoni» abbia un significato speciale e comporti le medesime implicazioni di quando parliamo di «buoni» amici, cioè si tratti di libri ai quali l'uomo è debitore di un po' della sua conoscenza della vita e della sua Weltanschauung: libri che ci han procurato diletto e che raccomandiamo volentieri agli altri, ma che non ci incutono timore o schiacciano con la loro statura.

Le nominerò quindi dieci di questi «buoni» libri, così come mi vengono in mente, senza troppo rifletterci.

Multatuli, Epistolario ed opere.

Kipling, Il libro della giungla.

Anatole France, Sur la pìerre bianche.

Zola, Fecondile.

Merejkowsky, Leonardo da Vinci.

Gottfried Keller, Gente di Seldwyla.

Conrad Ferdinand Meyer, Gli ultimi giorni di Hutten.

Macaulay, Saggi.

Gomperz, Pensatori greci.

Mark Twain, Racconti.

Non so a cosa Le servirà questo elenco. Mi sembra strano, e non posso rinunciare a commentarlo. Non voglio discutere il problema del perché ho scelto proprio questi libri e non altri altrettanto «buoni», ma vorrei chiarire un po' il rapporto tra l'autore e la sua opera. Questo rapporto non è sempre così stretto come ad esempio nel Libro della giungla di Kipling. In molti casi avrei potuto dare benissimo la preferenza a un'altra opera dello stesso autore: di Zola avrei ad esempio potuto scegliere Docteur Pascal, e così via. Chi ci ha dato un buon libro, spesso ce ne ha dati diversi. Nel caso di Multatuli non sono riuscito a decidermi in favore delle lettere private piuttosto che di quelle amorose o viceversa, per cui ho scritto Epistolario e opere.

Ho escluso dall'elenco le opere letterarie di valore puramente poetico, forse perché m'è parso che la Sua richiesta di buoni libri non intendesse opere del genere; nel caso di Hutten di C. F. Meyer, devo definirlo assai più «buono» che bello, l'edificazione che procura essendo molto maggiore del godimento estetico.

La Sua domanda di nominare dieci buoni libri sì riferisce a un insieme di elementi su cui ci sarebbero da dire un'infinità di cose. Perciò chiudo, per non diventare troppo prolisso.

Il primo esempio di studio psicoanalitico di un'opera letteraria (che Freud non pubblicò mai) compare nella sua corrispondenza con Fliess: dedica un paio di pagine all'interpretazione analitica della motivazione di un racconto di C. F. Meyer, Die Rìchterin. Fu Fliess a fargli conoscere l'autore, ed è indubbiamente per questa ragione che nella loro corrispondenza ci sono tante più allusioni a lui che non all'altro autore svizzero, di gran lunga superiore, Gottfried Keller. Freud individua l'origine della fantasia dell'autore dalla quale il racconto dev'essere derivato, e commenta: «Ecco che in ogni singolo elemento esso è identico ai romanzi di rivincita e di discolpa che i miei isterici maschi compongono sulle loro madri.» Un punto fondamentale nel tratteggiare la fantasia è quello che Freud chiama il «romanzo familiare» dell'autore, il quale, oltre ad essere un figlio adottivo, discendeva da genitori di alto rango ma ignoti. Vedremo in seguito quale interesse rivestirà questo argomento. Freud l'aveva già riscontrato nei paranoici, poi negli isterici, e solo in seguito riconobbe che esso è un elemento comune anche allo sviluppo normale del bambino.

Il primo esempio pubblicato invece è niente meno che la sua celebre interpretazione dell'Amleto, nella quale chiarisce l'antico mistero risolvendo la tragedia in una variante della situazione edipica. Aveva comunicato queste sue conclusioni a Fliess un paio d'anni prima, quando aveva scoperto il complesso di Edipo in se stesso.

Questo contributo freudiano, che fece veramente epoca, apparve modestamente in veste di nota marginale nell'Interpretazione dei sogni. Dieci

anni dopo fui in grado di confermare le sue conclusioni servendomi di un ricco materiale comparativo che fu finalmente raccolto in un libro. Da allora sono usciti molti studi psicoanalitici sui vari aspetti della tragedia, e J. I. M. Stewart (alias Michael Innes) ha composto un brillante lavoro teatrale nel quale un medico esegue con grande acume un'analisi postuma del personaggio di Amleto.

Questo pionieristico contributo di Freud ebbe Conseguenze di grande portata. Per la prima volta fu dimostrato che è possibile correlare la motivazione manifesta di una grande opera letteraria con i motivi inconsci che ne sono i presupposti, offrendo in tal modo un prezioso criterio "di giudizio sull'integrità psicologica di tale opera nei suoi vari strati, e far luce sulla personalità dell'autore, chiarendo le fonti più profonde della sua ispirazione. Anche un semplice elenco dei numerosi studi che debbono in fin dei conti il loro spunto alla famosa nota marginale di Freud, trascenderebbe i limiti di questa biografia.

Il successivo contributo di Freud allo studio della creazione letteraria risale al 1906, sebbene sia stato pubblicato, postumo, solo nel 1942. Si tratta di un breve lavoro intitolato Personaggi psicopatici della ribalta; ne abbiamo già fatto un breve riassunto e non rimane che ricordare che esso tratta delle condizioni e dei mezzi con i quali certe forme d'arte, in particolare il dramma, fanno presa sul pubblico. A questo proposito merita d'essere citato lo studio particolareggiato di David Siever sulla straordinaria influenza che questo scritto di Freud ha esercitato sul teatro americano dal 1912 in poi. Fin dal 1907 Freud aveva dato un esempio di come gli attori capaci possono giungere ad eseguire «azioni sintomatiche» inconsce; Adolf Deutsch ha dedicato a questo interessante argomento un suo studio.

L'anno seguente Freud pubblicò quel delizioso piccolo libro che va sotto il nome di Gradiva, delicatissima analisi di un racconto dello scrittore tedesco W. Jensen. Anche in questo caso, come per Shakespeare, Freud riesce a confermare nei particolari l'esattezza della motivazione dell'autore, mettendo in rapporto gli aspetti coscienti con quelli inconsci. Il libro rappresenta uno dei migliori esempi di abilità prosastica di Freud.

Un anno dopo Freud scrisse un altro lavoro, l'unico specificamente dedicato allo studio del temperamento artistico e del modo di creare, nel quale tratta essenzialmente della vita fantastica dell'artista e dei suoi rapporti con fantasie dimenticate dell'infanzia.

Nel 1913 Freud torna a Shakespeare, il suo autore preferito, con un'altra fine analisi in forma di saggio, che si intitola II tema dei tre scrigni.40 Scritto in uno stile che trascina, basterebbe da solo a porre Freud tra gli uomini di lettere. Esso inizia con un inatteso accostamento: la scelta im-posta a Bassanio nel Mercante di Venezia e il quesito posto da Re Lear alle tre figlie. Esaminando le fonti mitologiche dei due spunti, Freud riesce a far risalire il motivo sottostante alla contemplazione dei tre grandi temi connessi con la condizione di donna: la nascita, l'amore e la morte. Spiega poi che l'intuito di Shakespeare deve averne inconsciamente indovinato il significato più profondo,   riuscendo  quindi  ad  adombrarlo  nell'intreccio.

Due anni dopo Freud tentò di sviluppare altre due tragedie di Shakespeare, ma questa volta con un successo meno brillante. Freud stava allora studiando quella categoria di persone che chiama «eccezioni» in quanto pretendono un'esenzione speciale da quelle regole di comportamento medio che la società impone ai suoi membri. Freud fa risalire tale atteggiamento al fatto che le persone in questione credono di aver subito nell'infanzia una ingiusta offesa: Riccardo III, almeno quale lo tratteggia Shakespeare, apparterrebbe a questa categoria. Freud sottolinea l'abilità con cui il drammaturgo riesce però a suscitare un certo grado di simpatia per il suo eroe «cattivo», lasciando intendere il significato interiore del suo comportamento, senza insistervi pesantemente. È superfluo aggiungere che il profilo svisato che Shakespeare traccia del re deriva dal materiale propagandistico dei Tudor, ma Freud si preoccupa più del personaggio drammatico che di quello storico.

In altra parte dello stesso saggio, intitolata Le persone rovinate dal successo, Freud affronta un problema che lo tormentava da tempo, quello di Macbeth. Egli sentiva intuitivamente che la motivazione segreta della tragedia sta nel fatto che Macbeth non è stato capace di avere un erede maschio, ma non riusciva a conciliarla con i tempi proposti da Shakespeare; avanza allora un'altra ipotesi e cioè che Macbeth e sua moglie, che nel corso della tragedia invertono entrambi il loro personaggio, siano, psicologicamente parlando, una stessa persona: rappresenterebbero cioè un esempio della «decomposizione» mitologica, talora adottata anche da Shakespeare. In questo stesso saggio, meglio riuscita appare l'analisi del personaggio di Rebecca West del Rosmersholm di Ibsen. Freud separa accuratamente in tre strati il complesso di colpa che affligge l'eroina, e dimostra i legami tra essi esistenti.

Lo studio su Goethe, pubblicato da Freud nel 1917, ha poco a che vedere con la letteratura, poiché si limita ad analizzare il significato di un ricordo infantile isolato riferito da Goethe. Vent'anni prima Freud aveva già fatto delle interessanti osservazioni analitiche sulla genesi del Werther goe-thiano.

Nel 1919 Freud pubblica una breve nota nella quale richiama l'attenzione su un passaggio sulla censura che separa la coscienza dall'inconscio, tratto da Die Elixire des Teujels («Gli elisir del diavolo») di E. T. A. Hoffmann.

Il suo ultimo contributo alla psicologia della letteratura compare molti anni dopo, nel 1928. Questa volta lo scrittore oggetto di studio è Dostoievskij, che Freud ammirava moltissimo. Di lui dice: «Come scrittore creativo, il suo posto non è molto lontano da Shakespeare. I fratelli Karamazov è il più grande romanzo che sia mai stato scritto, e l'episodio del Grande Inquisitore è una delle più grandi creazioni della letteratura mondiale, mai abbastanza ammirata.» Molto minore è la sua stima .per l'uomo: lo aveva probabilmente deluso il fatto che un essere destinato a guidare l'umanità verso cose migliori fosse finito come un remissivo reazionario.

L'analisi, condotta contemporaneamente a quella di un brillante racconto di Stefan Zweig, non è sostanzialmente molto originale poiché il tema del parricidio è facilmente individuabile. Freud osserva che non a caso i tre massimi capolavori di tutti i tempi: l'Edipo Re di Sofocle, l'Amleto di Shakespeare e I fratelli Karamazov di Dostoievskij si imperniano sullo stesso tema. Freud ha molte cose interessanti da dire sulla personalità di Dostoievskij, sui suoi attacchi isterico-epilettici, sulla sua passione per il gioco, e così via; ma la parte più notevole del saggio consiste nelle osservazioni di Freud sui diversi tipi di virtù che esemplifica traendo spunto dalla gamma riscontrata in Dostoievskij.

Theodor Reik scrisse una critica dettagliata di questo saggio; Freud gli rispose di condividere molti degli appunti che gli aveva mosso, e aggiunse: «Ha ragione di supporre che in realtà Dostoievskij non mi piace, malgrado tutta la mia ammirazione per la sua drammaticità e superiorità. Ciò accade perché la mia pazienza per le personalità patologiche si esaurisce nelle analisi reali: nell'arte e nella vita non le tollero. Questa è una mia caratteristica personale, che non è necessariamente valida per gli altri.»

Sebbene avesse poco tempo a disposizione, anzi non ne avesse affatto all'infuori delle vacanze, Freud fu per tutta la vita un lettore avido e tuttavia profondo, cosa resagli possibile dalla straordinaria rapidità con cui riusciva a leggere e assimilare, oltre che da una tenacissima memoria. Gli piaceva molto citare frammenti di poesie, di solito molto a proposito, anjjhe se spesso la citazione non era rigorosamente esatta. Fin da giovane conosceva a fondo i classici latini, greci e tedeschi; in seguito lesse buona parte di quelli inglesi, francesi, italiani e spagnoli. I suoi scritti ridondano di casuali allusioni e riferimenti ad essi. Da un punto di vista umanistico Freud rientra senza dubbio tra gli uomini di alta cultura e di profonda educazione; basterebbe a provarlo la sua affermazione incidentale che il Paradiso perduto di Milton era uno dei suoi libri preferiti.

Degli autori francesi ammirava più di tutti Anatole France (il suo preferito), Flaubert per la perspicacia della sua immaginazione, ed Emile Zola per il suo realismo.

Di solito accondiscendeva a leggere i libri che gli venivano consigliati, ma ricordo che una volta io non vi riuscii: desideravo che leggesse alcune delle poesie nelle quali Browning esprime il proprio amore per l'Italia, ma le scansò dicendo: «Abbiamo anche noi i nostri entusiasmi.»

Più tardi, soprattutto durante la malattia, Freud si volse a letture più amene. Gli piacevano i romanzi polizieschi di Dorothy Sayers; ricordo che lo divertirono Orizzonti perduti e Addio Mr. Chips di James Hilton, // libro della giungla di Kipling e The Edwardians di V. Sackville-West ; gli erano sempre piaciuti Arnold Bennett, Galsworthy e Mark Twain che aveva ascoltato una volta a Vienna in veste di conferenziere. In Public faces di Harold Nicolson lo aveva molto divertito una frase, ivi riportata, di W. H. Auden: «Volti privati in luoghi pubblici sono più adatti e più piacevoli che volti pubblici in luoghi privati.»

Tra gli scrittori più in vista conosceva personalmente Hermann Hesse, Thomas Mann, Romain Rolland, Lou Andreas-Salomé, Arthur Schnitzler, Arnold Zweig e Stefan Zweig, tra i quali apprezzava soprattutto Mann, Schnitzler e Arnold Zweig. Con questi ed altri scrittori Freud scambiò delle lettere, che sono state messe a mia disposizione. Le più pregevoli, cioè quelle .tra Freud ed Arnold Zweig, saranno probabilmente pubblicate fra non molto.

I tre grandi uomini alla cui personalità Freud sembra essersi maggiormente interessato e con i quali forse in parte si identificava, sono Leonardo da Vinci, Mosè e Shakespeare. Non a caso per ciascuno di questi sono sorti problemi di identità, che, sotto forme diverse, sono evidenti varianti, più o meno mascherate, di quello che Freud definisce un «romanzo familiare», tema che conosceva a fondo fin da quando aveva cominciato a lavorare in psicologia. Leonardo fu separato dalla madre ancora bambino e allevato da una matrigna; Freud attribuisce alcune particolarità del quadro di S.Anna, la Vergine e il Bambino, che si trova al Louvre, al fatto che Leonardo confondeva le due donne: la Vergine e S. Anna dimostrano infatti la stessa età e le due figure si fondono come se fossero in effetti la stessa persona. Conosciamo le vedute di Freud su Mosè, cioè che non fosse un ebreo, come è stato sempre ritenuto, bensì un nobile egiziano. Vedremo che un'idea simile lo ossessionava a proposito di Shakespeare.

Voglio dire, cioè, che qualcosa, nella mentalità di Freud, lo portava a interessarsi in particolar modo all'eventualità che le persone non siano quelle che sembrano, tesi valida non solo nel caso di personaggi importanti ma anche per i comuni mortali. Ricordo quanto" Freud si dimostrasse compiaciuto quando nel corso del nostro primo colloquio scoprì che non ero inglese, come si potrebbe dedurre dai miei connotati, bensì gallese.

La storia di Shakespeare risale a molto tempo prima. Da studente Freud aveva udito il suo grande maestro Meynert sostenere che le opere di Shakespeare erano state scritte in realtà da Bacon, al che Freud aveva giudiziosamente commentato: «Se cosi fosse, Bacon sarebbe stato il cervello più eccelso che il mondo abbia mai prodotto; mi sembra invece più utile suddividere le creazioni di Shakespeare tra diversi rivali, che non aggiungere questo fardello sulle spalle di un uomo già importante.»50 Il suo scetticismo si andò rafforzando in seguito, quando venne a sapere che uno dei fondatori della teoria baconiana era una certa Miss Bacon di Boston, cosa che faceva pensare a un movente personale nell'attribuzione. Ciononostante il suo interesse persistette, e pochi anni prima della grande guerra Freud mi sollecitò a fare uno studio completo dei metodi interpretativi baco-niani per confrontarli con i metodi psicoanalitici: avremmo così sconfessato l'ipotesi e Freud avrebbe ritrovato la sua tranquillità. Inutile dire che avevo molte ragioni per non volere accollarmi questo compito.

Ma Shakespeare era inglese davvero, e il suo nome era effettivamente, come sembra, ravvicinarle a Breakespeare, ecc., ecc.? Attrasse Freud l'ipotesi di un italiano, un certo Gentilli, secondo la quale il nóme non sarebbe che una corruzione di Jacques Pierre; effettivamente Shakespeare mostra caratteristiche più latine che inglesi. Eravamo nell'epoca in cui i cultori dell'antropologia fisica tendevano a confondere le nazioni con le razze primitive, e trarre dalle misurazioni craniche delle ardite deduzioni.

Nel 1913 Freud si interessò vivamente quando venne a sapere che avevo cenato con Durning-Lawrence, baconiano così convinto da attribuire a Bacone non solo i suoi scritti, ma tutti quelli di Shakespeare, di Spenser e di Marlowe.

Dopo di che non ricordo altro sull'argomento fino a circa dieci anni dopo, quando Freud lesse un libro di un autore che portava l'infelice nome di Looney, il quale sosteneva che le opere teatrali di Shakespeare erano state scritte da Edward de Vere, 17° conte di Oxford; questa tesi fece subito una profonda impressione su Freud: se non proprio francese, Shakespeare era dunque alméno di discendenza normanna.

Quando compì 70 anni, nel 26, Eitingon, Ferenczi ed io trascorremmo con Freud la sera del 5 maggio; in quell'occasione egli ci espose esaurientemente la teoria di De Vere. Ricordo il mio stupore per l'entusiasmo che Freud riuscì a manifestare sull'argomento alle due del mattino. Un anno dopo rilesse il libro di Looney, e questa volta si convinse davvero delle conclusioni di questo signore. L'anno seguente, 1928, mi pregò di fare un'indagine approfondita in proposito, che ci avrebbe permesso di giungere a delle conclusioni psicoanalitiche del tutto nuove sulla personalità dell'autore. Scorsi il materiale e gli mandai una lettera di critiche sulle quali egli non fu affatto d'accordo; rimase evidentemente deluso della fredda accoglienza che avevo riservato alla nuova ipotesi.

Nella lettera scritta in occasione dell'assegnazione del premio Goethe nel 1930, Freud esprime il convincimento che è più verosimile che le famose tragedie siano state scritte dal conte di Oxford, per eredità Lord Gran Ciambellano d'Inghilterra, che non dal figlio incolto di un borghese di Stratford. In quello stesso anno questa sua convinzione fu ulteriormente rafforzata in seguito alla comparsa di un libro di Rendali, il quale sosteneva che lo studio dei Sonetti mostra che Shakespeare era in realtà il conte di Oxford. Nello scrivere al dr. Flatter, un esperto shakespeariano con il quale aveva scambiato diverse lettere, Freud osserva: «Sono quasi convinto per davvero che il nostro Shakespeare altri non fosse che questo aristocratico.»

Nel rivedere la sua Autobiografia (1935), là dove sostiene che la composizione dell'Amleto corrispose alla morte del padre di Shakespeare, aggiunse la seguente nota marginale: «Questa è una deduzione che desidero ritrattare. Non credo più che l'attore William Shakespeare di Stratford fosse l'autore dei lavori a lui per tanto tempo attribuiti. Dopo la pubblicazione di Shakespeare identificato, di Thomas Looney, sono pressoché convinto che effettivamente dietro quel nome di battaglia si celasse Edward de Vere, conte di Oxford.» E riafferma questa sua convinzione nel suo ultimo saggio, scritto nel 1939, Sommario di psicoanalisi.

Il rumore sollevato da Looney non si è ancora sopito, e da allora sono comparsi sulla scena una sequela di conti. Sono stati scritti libri per dimostrare che le tragedie di Shakespeare non sono state scritte dal conte di Oxford ma dal conte di Derby ovvero dal conte di Rutland, e poi, per una ragione o per l'altra, hanno tirato in ballo il conte di Pembroke, il conte di Montgomery e il conte di Southampton. Recentemente Calvin Hoffmann ha fatto un volgare tentativo per dimostrare che il vero autore delle opere shakespeariane non era un Pari del Regno, bensì il drammaturgo Marlowe; tentativo che è stato punito con la più feroce critica che il «Times Literary Supplement» abbia mai pubblicato. Non mi consta però che Freud abbia preso in considerazione nessuno di questi rivali inferiori.

Prima di venire a conoscenza del libro di Looney sul conte di Oxford, Freud non era pervenuto a una conclusione definitiva circa la possibilità che le tragedie fossero state scritte da Bacon: l'alternativa dell'idea oxfordiana dev'essergli stata di sollievo. Ad Eitingon disse che v'erano due argomenti che lo «assorbivano sempre alla follia»: la controversia Bacon-Shakespeare e la questione della telepatia. Uno psicoanalista non può fare a meno di chiedersi se tra queste due idee così liberamente associate non potesse esistere un rapporto. Forse la frase «le cose non sono quel che sembrano» si adatta al caso. In entrambe ci pare di cogliere un desiderio di poter mutare almeno in parte la realtà.

Da tutta questa discussione sull'identità, si può facilmente intuire che abbiamo a che fare con qualche derivato della fantasia freudiana del «romanzo familiare». Freud stesso aveva citato una fantasia cosciente alquanto simile, occorsagli nella sua giovinezza: il desiderio di essere figlio di Emanuel  ed  avere perciò  nella  vita  un  cammino  più  facile.  Interessante, tuttavia, non è tanto che la personalità di Freud potesse contenere elementi simili a quelli dei più comuni mortali, quanto che questi elementi riuscissero a turbare il suo pensiero fino in plaghe così remote.

Il seguente elenco di celebrità del mondo letterario con le quali Freud era in contatto, non ha alcuna pretesa di completezza. Il conte Coudenhove-Kalergi, Havelock Ellis, Gerhardt Hauptmann, Richard Beer, V. Hoff-mann, Thomas Mann, Franz Werfel, Arnold Zweig, Stefan Zweig. Ne conosceva personalmente la maggior parte; alcuni erano suoi amici intimi. Ne abbiamo ripetutamente parlato nei capitoli precedenti.